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Invisible Monsters — Chuck Palahniuk 11 Lug 2011

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Vai a quanto odio mio fratello in questo momento.

«Ho comprato questo tessuto perché ho pensato che sarebbe stato un bel drappo per Shane» dice mamma. «Abbiamo avuto dei problemi per cosa cucirci sopra.»

Dammi amnesia.

Flash.

Dammi nuovi genitori.

Flash.

«Tua madre non voleva pestare i piedi a nessuno» dice papà. Stacca una coscia e comincia a spolpare la carne su un piatto. «Nell’ambiente gay bisogna stare attenti, dato che ogni cosa ha un suo significato in codice segreto. Voglio dire, non vogliamo che la gente si faccia un’idea sbagliata.»

Mia mamma si sporge per mettermi le patate nel piatto e dice: «Tuo padre voleva un bordo nero, ma nero su sfondo blu vorrebbe dire che Shane era eccitato da sesso e cuoio, capisci, schiavitù e disciplina, sado e masochismo». Dice: «In realtà questi drappi servono per aiutare la gente che rimane».

«Degli sconosciuti vedranno noi e vedranno il nome di Shane» dice miopadre. «Non volevamo che pensassero chissà che cosa.»

Tutti i piatti hanno cominciato la loro lenta marcia oraria attorno al tavolo. Il ripieno. Le olive. La salsa di mirtilli.

«Io volevo dei triangoli rosa ma tutti i drappi hanno dei triangoli rosa» dice mia mamma. «È il simbolo nazista per gli omosessuali.» Dice: «Tuopadre ha suggerito triangoli neri, ma questo vorrebbe dire che Shane era lesbica. Ricorda i peli pubici femminili. Il triangolo nero li ricorda».

Mio padre dice: «Poi volevo un bordo verde, ma si sa che quello starebbe a indicare che Shane batteva».

Mia mamma dice: «Avevamo quasi scelto un bordo rosso, ma quello avrebbe voluto dire fisting. Marrone starebbe per scat o rimming, non siamo  riusciti a capire quale dei due.»

«Giallo» dice mio padre «vuol dire pissing.»

«Un blu più chiaro» dice mamma «significherebbe normale sesso orale.»

1 Gen 2010

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“Piantala…” disse piano.

Liberai dolcemente la mano e mi alzai. Ero ancora nudo. Mentre mi vestivo in fretta, vidi che si era seduta sul letto. Mi guardava.

“Dov’è la tua roba?” domandai, e mi pentii subito.

“La mia roba?”

“Ma hai solo quel vestito?”

Ormai era un gioco. Mi comportavo apposta con noncuranza, con naturalezza, come se ci fossimo lasciati il giorno prima, no, come se non ci fossimo mai lasciati. Si alzò e con una leggera mossa diede un colpo alla gonna per lisciarla. Le mie parole l’avevano interessata, ma non disse nulla. Per la prima volta diede uno sguardo concreto all’ambiente, come cercando qualcosa, poi riportò gli occhi su di me, visibilmente stupita.

“Non so…” mi disse vaga. “Forse nell’armadio…?” aggiunse, e socchiuse la porta.

“No, lì ci sono le tute” risposi. Trovai di fianco al lavandino il rasoio elettrico e cominciai a farmi la barba. Preferivo non voltare le spalle a quella ragazza, chiunque fosse.

camminava su e giù per la cabina, guardando in tutti gli angoli, e fuori dalla finestra; alla fine mi si avvicinò e disse:

“Chris, ho l’impressione che sia successo qualcosa…”

S’interruppe. Aspettai, col rasoio in mano.

“È come se avessi scordato… è come se avessi scordato quasi tutto. Solo… ricordo te… E… e niente più.”

L’ascoltavo cercando di dominare la mia espressione.

“Sono… stata ammalata?”

“No… ma si potrebbe dire così. Sì, per un certo tempo sei stata un po’ ammalata.”

“Ah, dev’essere per questo.”

Cominciò a rasserenarsi.

Non so descrivere ciò che passai. Quando stava zitta, e camminava, e si sedeva, e sorrideva, ero convinto di avere davanti a me Harey. A farmi girare la testa era qualcosa di più forte della paura. Una Harey semplificata, limitata alle sue caratteristiche nei gesti e nelle risposte.

Grazie a Cinzia per la pagina.

Bassotuba Non C’è — Paolo Nori 25 Giu 2009

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Torno a casa, una sera, c’è un messaggio in segreteria. Dice, il messaggio, Ciao, Learco, indovina chi sono? Facciamo così, se indovini mi chiami. E ridacchia. Agata. Vado a lavarmi le mani, che non so cosa fare. Ma sei sicuro che fosse Agata? No. Non sono. Puoi dire con certezza di averla riconosciuta? No, con certezza no. Magari è una sua amica. Che a stare insieme, finisce che si parla nello stesso modo. No, no, non lo so se è Agata o no. Non l’ho riconosciuta. A posto.

Sento una voce che viene dall’alto che dice Learco! Ciao, angelo.

Learco, dice l’angelo, c’è un dibattito indiavolato sul tuo primo romanzo.

Ma dai, dico io.

Sì. C’è un principe dei critici che è molto colpito: antifrastico, dice, esplosivo e implosivo nello stesso tempo, un romanzo come non ne leggeva da tempo.

Ma dai, dico io.

Sì. Ma c’è un altro principe, questo è un po’ il capo dei principi dei critici, che dice che se il consesso dei principi riconosce il tuo romanzo come segno della realizzazione dei tuoi talenti, lui dà le dimissioni.

Ma dai, dico io.

Sì. A memoria d’angelo, non si ricorda una dimissione di un principe dei critici. Situazione critica. A quel principe non piaci proprio per niente. Quando parla del tuo romanzo, si sentono le urla da fuori.

Ma dai, dico io.

Sì. I bene informati dicono che il consesso è spaccato in due: tre principi per te, tre contro di te. Vedremo. Ti tengo informato.

Grazie, dico io.

Dovere, dice l’angelo.

Grazie a Franca per la pagina.

Confessioni di una Maschera — Yukio Mishima 24 Giu 2009

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Confessioni di una mascheraSbarrai gli occhi nel vuoto, grattandomi le brutte cicatrici della vaccinazione sopra le braccia scarne. Intanto fu fatto il mio nome. La bilancia sembrava identica a un patibolo che proclamasse l’ora della mia esecuzione.

“Quarantaquattro!” latrò l’assistente al medico della scuola. Un tempo quell’assistente era stato infermiere in un ospedale militare, e conservava ancora i modi da caserma.

Mentre annotava la cifra sulla mia cartella clinica, il dottore borbotto fra sé:

“Bisognerebbe che arrivasse almeno a quarantotto chili.”

Ormai avevo fatto il callo a un trattamento del genere in occasione d’ogni visita medica. Ma quel giorno fui tanto sollevato all’idea che Omi non fosse presente alla mia umiliazione, che le parole del dottore non mi procurarono la solita angoscia. Per un attimo il mio senso di solievo rasentò quasi la gioia…

“Bene…avanti a chi tocca!”

L’assistente mi scrollò per la spalla, spazientito. Ma questa volta non lo fulminai con l’occhiata d’odio e di rabbia che solevo scoccargli.

Malgrado tutto questo, dovevo aver previsto, anche se vagamente, la fine del mio primo amore. Con ogni probabilità era appunto l’inquietudine creata da quel triste presagio che formava il nucleo del mio piacere.

Venne un giorno, agli sgoccioli della primavera, che sembrava lo scampolo che un sarto avesse staccato da una pezza d’estate, oppure una prova in costume della stagione ventura. Era quel giorno dell’anno che arriva in rappresentanza dell’Estate, per passare in rassegna il guardaroba di tutti e accertarsi che ogni cosa sia in ordine. Era quel giorno in cui la gente sfoggia la camicia estiva per dimostrare che ha le carte in regola.

Nonostante il tepore del mattino, ero raffreddato e avevo i bronchi fortemente irritati. Un mio amico era afflitto da disturbi di stomaco, e andammo insieme al gabinetto di medicina per farci rilasciare una giustificazione scritta che ci permettesse d’intervenire alla lezione di ginnastica senza l’obbligo di partecipare agli esercizi.

Grazie a Eleonora per la pagina.

Un Luogo Incerto — Fred Vargas 23 Giu 2009

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Finché Vaudel non l’aveva assunto per occuparsi del giardino, della scorta di legna e, in seguito, della spesa e delle pulizie di casa. Emile gli andava bene perché non cercava di fare conversazione. Quando i vicini avevano saputo del passato del giardiniere, la cosa non era piaciuta.

“È normale, bisogna mettersi nei panni della gente, Emile il picchiatore, così mi chiamano. Ovvio che la gente fosse diffidente, mi evitava.”

“Addirittura?” domandò Adamsberg.

L’uomo si era seduto sul gradino più alto della soglia di casa, dove il sole dei primi di giugno riscaldava un pò la pietra. Magro e con le gambe corte, la tuta che gli ballava addosso, non aveva nulla di inquietante. Il suo volto molto asimmetrico era consunto e anonimo, piuttosto brutto, non esprimeva né volontà né sicurezza. Sulla difensiva, Emile si puliva il naso deformato dai colpi, si copriva gli occhi. Aveva un orecchio più grande dell’altro e se lo strofinava come un cane inquieto, e solo quel gesto indicava che era addolorato, o si sentiva perduto. Adamsberg sedette accanto a lui.

“Lei è con la squadra dei poliziotti?” domandò l’uomo dopo aver dato un’occhiata perplessa ai vestiti di Adamsberg.

“Sì. Un collega dice che lei non è d’accordo con i vicini a proposito di Pierre Vaudel. Non so il suo nome.”

“L’ho già detto venti volte. mi chiamo Emile Feuillant.”

“Emile” ripeté Adamsberg, per fissare bene la parola.

“Non lo scrive? Gli altri l’hanno scritto. Ed è normale, se no rifarebbero cento volte le stesse domande. I poliziotti, comunque, si ripetono. E’ una cosa che mi ha sempre dato da pensare: perché i poliziotti ripetono tutto? Uno gli dice: ‘Venerdì sera ero al Perroquet’, e il poliziotto risponde: ‘Dov’eri venerdì sera?’ A che serve se non a logorare i nervi?

Grazie a Eleonora per la pagina.

Eureka Street — Robert McLiam Wilson 22 Giu 2009

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Eureka StreetLe tende della stanza davanti erano ancora tirate.Il signor Johnson era in canottiera e pantaloncini: Crab gli era tanto vicino da impedirgli di respirare. Sulla parete un sobrio quadretto molto protestante recitava: Dio è amore. Sì, sì, pensai, vedremo.

Crab domandò dov’era il letto. Hally chiese a Crab dove cazzo pensava che fosse. La faccia di Crab si contrasse per la rabbia. Alla base del cranio sentii un nervo che iniziava a ballare.

“Sentite, ragazzi”, disse l’uomo con voce inespressiva, nonostante lo sforzo di mostrare benevolenza. “Mia moglie sta molto male. Ha avuto un ictus. Quel letto le serve. E’ un letto speciale, ce lo hanno consigliato i medici. Mi è costato mille e cinquecento sterline. Mi rimangono da pagare solo poche rate. Non possiamo trovare un accordo? Sta molto male davvero.”

“Noi non c’entriamo. Dobbiamo solo ritirarlo”.

“Sì, capisco, ma state a sentire. Mia moglie è lì sopra adesso. E’ difficile spostarla. Se tornate tra un’ora, potete portarlo via”.

Crab non ci vedeva più, si chinò a un centimetro dalla faccia dell’uomo e sbottò: “Credi che possiamo stare qui tutto il giorno ad ascoltare i tuoi problemi del cazzo?”. E partì di gran carriera per andare di sopra. Sembrava un matto. Ci lanciammo tutti su per le scale dietro di lui.

In una camera da letto spoglia, ma ordinata, trovammo Crab che fissava il gracile corpo di una donna distesa su un pesante letto metallico, avvolta nelle coperte. La signora Johnson era (probabilmente) sveglia: due occhi incavati ci fissavano da un volto sfigurato. Il nervo alla base del cranio si mise a tambureggiare violentemente.

Rimanemmo tutti immobili per un attimo. Un attimo di silenzio o di vergogna, o chissà. Un istante di consapevolezza. Io, Crab, Hally, e quei due disgraziati, in quell’istante, comprendemmo dove eravamo e cosa stavamo facendo.

Dopo di che sarebbe potuta succedere qualunque cosa. Avremmo potuto decidere di fare dietrofront e di lasciare in pace quella povera gente e tornare da Allen con una balla, o trovare un accordo con quel ciccione che guardava la moglie con tanta dolcezza.

Ma Hally aveva picchiato Crab e Crab era ancora furente e aveva assolutamente bisogno di sfogarsi. Senza dire una parola, si ridestò all’improvviso, marciò verso il letto e afferrò il materasso con entrambe le mani.

Grazie a Monica per la pagina.